Diversi studi hanno dimostrato, come col passare degli anni, la velocità di elaborazione delle informazioni e le performance psicomotorie tendano a peggiorare, mentre stabili resterebbero le conoscenze generali e il vocabolario.
Ma come si può distinguere il normale processo di invecchiamento, dall’insorgere di un quadro demenziale ingravescente?
È fisiologico infatti, con l’avanzare degli anni, presentare difficoltà a ripescare i nomi di oggetti o persone (anomie) o nel memorizzare numeri di telefono (deficit di memoria a breve termine); così come frequenti possono essere gli episodi in cui ci si dimentica dove sono le chiavi o cosa si era intenti a fare.
Quali i fattori che devono allarmarci?
Molto spesso sono i familiari o i datori di lavoro a suonare il primo campanello di allarme, perché ad esempio, la persona interessata non riesce più a garantire le stesse prestazioni lavorative, in termini di attenzione o di memoria. Ma anche nell’ambito familiare, accade che i coniugi fraintendano l’atteggiamento della partner, per la limitata capacità di accudire il nucleo familiare. Non di rado accade che i primi sintomi di un disturbo neurocognitivo siano sovrapponibili ad un quadro depressivo e ciò induce in errore diagnostico anche gli stessi esperti. Perdita di interesse per le normali attività prima considerate piacevoli, apatia, irritabilità, sono tutti sintomi con cui può insorgere una patologia degenerativa.
Come correre ai ripari?
La prima cosa da fare è osservare la persona che ci preoccupa. Spesso ad esempio le persone con disturbi neurocognitivi presentano prestazioni fluttuanti che subiscono l’effetto dello stato umorale, dell’ambiente circostante, inteso come complessità delle richieste poste, ma anche dell’ora del giorno. Nella pratica clinica, molto noto è il fenomeno del sundowning. Letteralmente, viene definito sindrome da tramonto e consiste nel peggioramento della sintomatologia al calare del sole, o comunque in tutte quelle situazioni dove si assiste ad un passaggio da condizioni di buona illuminazione a scarsa illuminazione. Il paziente, al venire meno di determinati punti di riferimento, può manifestare una maggiore ansia, confusione e irritabilità nelle ore serali.
Fondamentale allora, per porre diagnosi differenziale, diventa sottoporre il soggetto all’esame del suo stato mentale, avvalendosi del supporto di diverse figure professionali: neurologo, psichiatra e neuropsicologo. Sarà opportuno quindi, procedere con l’esecuzione dei test di laboratorio, di imaging cerebrale ( SPECT, PET, RMf) ma anche dei test neuropsicologici.
Questi test, tra i più noti: MMSE, ENB-2, MoCA, CDT, FAB, BADS, DRS, consentono di quantificare l’eventuale compromissione cognitiva presente e di valutare i punti di forza e di debolezza delle funzioni cognitive. Tali strumenti, standardizzati e validi, consentono di porre un’eventuale diagnosi differenziale e di capire, ad esempio, se ci si è preoccupati ingiustamente, o se invece sia il caso di sottoporre il soggetto ad un training cognitivo.
Cosa si intende per training cognitivo?
Nel caso di una patologia degenerativa come la demenza di Alzheimer, lo scopo di questa metodica sarà quello di rallentare il più possibile la perdita delle capacità cognitive, esercitando le capacità residuali, con l’ausilio di compiti specifici. Molto importante sarà il coinvolgimento dei familiari, che devono essere supportati attraverso dei consigli pratici per rapportarsi al meglio con la persona malata.
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Simona Novi - psicologa, psicoterapeuta